Eduardo Galeano è immortale

galeanoDi Stella Calloni, tratto da la www.laluchasigue.org, 22 aprile 2015.

Dicono che Eduardo Galeano è morto e sembra impossibile accettarlo, perchè se c’è uno scrittore vivente in America Latina è proprio lui, che ha fatto della parola il più grande gioco dell’immaginazione per la vita.
Quando un giorno a Montevideo mi ha regalato il suo libro Las palabras andantes (Parole in cammino NdT), edito – come tutti i suoi libri nella loro prima edizione, dalla casa editrice El Chanchito, che lui ha fondato nel suo paese – sentii e glielo dissi, che era un lavoro intriso di magia. In un paragrafo di questo libro leggiamo la più dettagliata definizione che uno potrebbe dare di lui stesso: “ Per favore, glielo supplico, non mi offenda chiedendomi se questa storia è accaduta. Gliela sto offrendo ora perchè lei faccia in modo che accada. Non le chiedo che descriva la pioggia in quella notte della visitazione dell’arcangelo: esigo che lei si bagni. Si decida signor scrittore, e per una volta almeno sia lei il fiore che profuma invece di essere il cronista che annusa. Poco interessante è scrivere ciò che si vive, la sfida è vivere ciò che si scrive.”

Galeano aveva accettato ampiamente questa sfida e per questo con lui era possibile entrare in tutti i labirinti e bagnarsi con la pioggia, tremare negli uragani e ballare quando la realtà circostante voleva imporci la cultura della morte. E potevamo parlare dei temi più incandescenti che ci circondavano e di come milioni di esseri ignorati resistono semplicemente per “il fluire magico della vita”.
Galeano aveva sempre delle risposte e nonostante il suo libro Le vene aperte dell’America Latina fosse il più conosciuto al mondo, ammetteva che ogni scrittore scrive in realtà un solo libro e lo va cambiando, rinnovando, rivivendo, nello stesso tempo  “in cui lavora e vive lo scrittore continua a scrivere”. I temi che lui ha scelto sono diversi e li leggiamo come chi beve dell’acqua fresca che sgorga da una cascata nel mezzo di una foresta. Li leggiamo con sete, perchè come l’acqua ci calmano e stranamente ci danno protezione. Era commuovente la tenerezza che appariva nel suo sguardo quando parlava dei paesi dell’America latina, della Bolivia, del Guatemala, del Nicaragua, dove in altri tempi abbiamo condiviso un viaggio indimenticabile nella Costa Atlantica, in cui successero un’infinità di situazioni che superavano qualsiasi fantasia o quando potè “guardare vedendo” la realtà di ciò che significava il presidente Hugo Chavez per il suo paese e la delusione che lo colpì quando vide vecchi amici socialisti, che all’epoca erano figure politiche della sinistra venezuelana, arrivare all’incontro in un hotel di Caracas nelle lussuose automobili degli impresari che difendevano. Una cosa incomprensibile per uno scrittore come Galeano che oltretutto – e io fui testimone di ciò – glielo disse apertamente.
In una delle varie interviste che gli feci nel periodo dell’apparente “splendore” neoliberale e della globalizzazione del nostro continente, avvertiva che mai il mondo era stato tanto diseguale. “E’ un paradosso terribile che dipinge la fine del secolo (XX) in un modo non molto piacevole, dove siamo obbligati a pensare tutti uguale, a vestire tutti uguale, a mangiare le stesse cose. Si è occupato anche il posto dei cibi locali. Credo che bisogna essere a favore dell’autodeterminazione dei cibi, come di tutto, perchè i cibi locali sono tra le energie culturali più potenti che i paesi contengono (…) mai i poveri furono tanto poveri e mai i naufraghi rimasero così abbandonati. Non avevamo mai visto questa omogeneizzazione atroce che ha per principale protagonista la televisione.
La più grande uniformatrice di costumi è la televisione che ci porta a non pensare con la nostra testa, a non sentire e ci rende incapaci di camminare con le nostre proprie gambe. Non sto confondendo il coltello con l’assassino, la televisione è uno strumento, però, per come funziona e al servizio di chi funziona, svolge questo ruolo.”
Era così trasparente nella sua scrittura come quando parlava di fronte a diversi tipi di pubblico, condannando l’ipocrisia che “stabilisce l’uniformità in nome della diversità”. E in questo stesso contesto segnalava che in nome della lotta al dogmatismo si creava il paradosso di imporre il peggiore dei dogmatismi, che è il dogmatismo del mercato. “Ora c’è come un’ondata universale di lotta contro i fondamentalismi con cui si giustificano le spese per le armi quando sono rimasti senza nemici… Ora non ci sono nemici alla vista e se ne fabbricano di nuovi: il più potente è il fondamentalismo islamico, però non dicono che, ancora più potente, è il fondamentalismo dei tecnocrati del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, che impongono una ricetta economica obbligatoria ai paesi del sud, nei limiti strettissimi di quella che è l’idolatria del mercato.
Una concezione dell’economia e della vita che colloca le mercanzie al di sopra delle persone, confonde la qualità della vita con la quantità di cose e nega tutti i valori che non hanno prezzo, in un mondo in cui – come diceva il poeta Machado – cualquier necio confunde valor y precio, qualsiasi imbecille confonde valore e prezzo.”
Nel terminare la lettura del suo libro I figli dei giorni, nelle installazioni della sala Nezahualcòyotl nel novembre 2012, sugli aspetti perversi di un sistema che, come lui stesso analizzava, “assalta e ruba le parole” , pensavo che tutto ciò porta a valorizzare il senso che ha l’avventura dello scrivere “restituire alle parole il senso perduto, manipolate come sono da un sistema che le usa per negarle. C’è una lezione che il mondo ignora che ci hanno dato gli indios Guaranì nel momento in cui hanno creato la loro lingua. Nella loro lingua guaranì, parola e anima si dice nello stesso modo. C’è una voce “ñ’è”, che dice che parola e anima sono la stessa cosa. E in questo sistema senz’anima che ha ottenuto la quasi unanimità universale in nome della lotta al materialismo, che è il più materialista dei sistemi che l’umanità abbia conosciuto – la parola è stata e continua a essere manipolata a scopi commerciali o di inganno politico. Il suo uso e abuso tradisce l’anima. O meglio, questa identità tra parola e anima si rompe tutti i giorni, subisce tradimenti.”
Gli chiesi cos’era esattamente per lui  Las palabras andantes, un libro con un tessuto tanto poetico. “Io credo che questo libro sia uno vaniloquio che proviene dall’immaginazione collettiva. Molti dei racconti li raccolsi nelle strade che ho percorso in America Latina, altri sono il prodotto della mia immaginazione. Però sia in un caso che nell’altro, io credo che ciò che il libro esprime è il diritto di sognare e che non sta nella Carta delle Nazioni Unite del 1948, la Dichiarazione dei Diritti Umani.
Ci sono tanti diritti, ma tra questi non figura il diritto di sognare, che è un diritto fondamentale, senza il quale la povera speranza morirebbe di fame. Se il sogno non ci permettesse di immaginare un mondo diverso, se la fantasia non rendesse possibile questa capacità un po’ miracolosa che la bestia umana ha di spostare gli occhi un po’ più in là dell’infamia,  in che cosa potremmo credere? che cosa potremmo sperare? che cosa potremmo amare?  Perchè in fondo uno ama il mondo a partire dalla certezza che questo mondo, un mondo triste trasformato a volte in un campo di concentramento, contenga un altro mondo possibile. Questo mondo possibile che ora vediamo affacciarsi in America Latina. Prendo dalle sue parole in cammino: “Sento che siamo gocce di qualcuno dei tanti fiumi che sopravvivono nonostante la costante distruzione per mano dell’uomo, che insiste nel distruggere il paradiso in cui può vivere. Siamo come un vento che non muore quando la vita finisce. E per questo non credo in altra immortalità oltre a questa, perchè sono sicuro che uno sopravvive nella memoria e negli atti degli altri.”