Un rapporto del Dipartimento di Stato e di Giustizia degli Usa rivela le menzogne della DEA sul massacro dei miskitos
Tegucigalpa, 5 giugno (LINyM) -. All’alba del 11 maggio 2012, una piccola imbarcazione con 16 persone a bordo scivolava silenziosa sulle acque del fiume Patuca, nella Mosquitia honduregna. Un lungo e faticoso viaggio di più di sette ore per giungere alla comunità di Paptalaya, nel municipio di Ahuas, provincia di Gracias a Dios.
Erano le 2 del mattino e quasi tutti i passeggeri dormivano, quando furono svegliati dal rumore di almeno quattro elicotteri militari statunitensi che sorvolavano la zona. Una pioggia di pallottole di grosso calibro investì la piccola imbarcazione e i suoi occupanti.
L’operazione congiunta degli agenti del FAST (Foreign-deployed Advisory and Support Team della DEA (Drug Enforcement Administration) e della Squadra di risposta tattica della polizia nazionale dell’Honduras lasciò un bilancio di quattro morti: Emerson Martínez Henríquez (21 anni), Hasked Brooks Wood (14 anni), Juana Jackson Ambrosio (28 anni) y Candelaria Pratt Nelson (48 anni).
Vari anche i feriti di cui 5 piuttosto gravi. Secondo i parenti, Juana e Candelaria erano incinta di diversi mesi [1].
Escalation militare
L’operazione s’inserisce in un contesto di crescente militarizzazione della zona nord-orientale dell’Honduras. Negli ultimi anni, con la scusa della lotta contro il narcotraffico, il governo nordamericano è tornato a investire milioni di dollari nell’apertura di nuove basi militari, come ad esempio quelle di Isla Guanaja e Caratasca, sempre nella zona di Gracias a Dios, che si aggiungono all’ormai storica base di Soto Cano (Palmerola).
Inoltre, l’ambasciata degli Stati Uniti in Honduras, il governo honduregno, l’Ufficio narcotici e affari internazionali (INL) del Dipartimento di Stato, la DEA e il Comando Sud hanno disegnato un piano per il dispiegamento veloce di elicotteri statunitensi in territorio honduregno per supportare le operazioni antidroga.
In questo modo, l’Honduras è diventato il paese che ospita il maggior numero di basi nordamericane in tutta la regione. Una forte accelerazione dell’escalation militare vincolata anche al caos istituzionale creatosi nel Paese dopo il colpo di Stato che nel 2009 rovesciò l’allora presidente Manuel Zelaya Rosales.
La DEA e lo Stato se ne lavano le mani
Dopo il massacro, l’allora portavoce della DEA a Washington, Dawn Dearden, riconobbe che agenti del FAST stavano lavorando a bordo degli elicotteri come appoggio ai corpi speciali della polizia honduregna. Ma aggiunse che non furono loro a sparare. L’allora ambasciatrice statunitense in Honduras, Lisa Kubiske, confermò questa ipotesi e assicurò alla stampa nazionale che le truppe che si erano rese protagoniste dell’operazione antidroga avevano agito nel rispetto del loro mandato e per legittima difesa, presumibilmente per rispondere agli spari provenienti dalla piccola imbarcazione.
I famigliari delle persone assassinate negarono i fatti e giurarono che si era trattato di un attacco indiscriminato, seguito da una persecuzione contro le persone della comunità. Sia i famigliari delle vittime che il sindaco di Ahuas, Lucio Baquedano, ribadirono con forza che gli agenti avevano sparato in modo indiscriminato, credendo che l’imbarcazione stesse trasportando droga scaricata da un aereo che era atterrato poche ore prima.
In effetti il terrore non finì con l’attacco alla barca. Si prolungò per diverse ore quando decine di agenti honduregni e nordamericani si calarono dagli elicotteri in cerca di presunti narcotrafficanti e della loro merce. Gli abitanti furono fermati, buttati a terra, legati e colpiti senza alcun motivo. Le porte delle loro case impunemente sfondate e gli interni messi sottosopra.
Una notte di terrore che non ha ancora responsabili. Cinque anni dopo, due degli accusati, Noel Andrés Hernández e Iván Neptaly González Herrera, sono stati prosciolti in primi grado dalle accuse, mentre il membro della DEA Alexander Ramón Robelo Salgado verrà processato per omicidio e abuso di autorità ai danni di Emerson Martínez Henríquez.
I famigliari avevano ragione
A cinque anni di distanza dal massacro che ha funestato la Mosquitia honduregna, un rapporto del Dipartimento di Stato e di quello della giustizia degli Stati Uniti, rivela che la DEA mentì al Congresso, ai funzionari del Dipartimento di giustizia e ai cittadini in generale. Conferma inoltre che l’operazione militare fu organizzata ed eseguita male, che non si indagò a fondo su quanto accaduto, né si fornirono informazioni esatte ai funzionari del Dipartimento di giustizia e al Congresso.
Nel suo rapporto, l’ispettore generale del Dipartimento di giustizia non ha trovato prove a sostegno della versione della DEA.
“Anche di fronte a informazioni diverse da quelle contenute nel rapporto iniziale e cioè che la barca avrebbe potuto essere una specie di ‘taxi acquatico’ che portava delle persone di notte verso le proprie comunità, gli ufficiali della DEA sono rimasti impassibili e non le hanno prese in considerazione”, segnala il New York Times citando il rapporto.
In nessun momento – continua il rapporto – hanno potuto corroborare la versione secondo cui le persone attaccate dagli agenti erano narcotrafficanti che trasportavano droga.
“Il rapporto dimostra che i famigliari delle vittime avevano ragione. Dimostra che le dichiarazioni della DEA e delle istituzioni honduregne erano false. Adesso devono rispondere per le loro menzogne e per aver manipolato i fatti, a tal punto da infangare l’immagine delle persone assassinate e della popolazione miskita in generale”, ha detto alla LINyM Miriam Miranda, coordinatrice dell’Organizzazione fraternale nera honduregna, Ofraneh, che ha la rappresentanza legale dei famigliari delle vittime.
“Ancora una volta si dimostra come la cosiddetta lotta contro il narcotraffico sia fonte di violazione ai diritti umani delle popolazioni e comunità locali”, ha aggiunto Miranda.
I famigliari pretendono giustizia
“Mia sorella è stata massacrata. Il suo corpo galleggiava sulle acque del fiume con quattro ferite di pallottola. Aveva appena 28 anni ed era incinta di cinque mesi. Io sono madre single di 4 figli e ho dovuto occuparmi dei suoi due figli. Sono sola e non so come andare avanti”, ha detto Marlen Zelaya Jackson, sorella di Juana Jackson Ambrosio, durante il Secondo Incontro nazionale di donne indigene e nere dell’Honduras.
“Non abbiamo avuto nessuna risposta dalle autorità. Questa gente è colpevole, lo stesso rapporto degli Stati Uniti lo dice. Abbiamo sempre avuto ragione e adesso devono pagare per quello che hanno fatto. Esigiamo che sia fatta giustizia”, ha concluso Zelaya Jackson.
[1] Nel testo si riprendono parti dell’ampio reportage pubblicato da Opera Mundi (qui in spagnolo).
Traduzione: Giampaolo Rocchi
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