Due anni sono passati dalla scomparsa di Hugo Chávez, ma la sua presenza è forse ora più forte di quando fosse in vita.
E lo è non solamente in Venezuela e in America Latina; anche nel vecchio continente se ne sente il riverbero. Come un vento di liberazione, o come un pericoloso spettro, a seconda della prospettiva.
Negli Stati Uniti, avvertita addirittura come una minaccia. Aldilà però della solite prove muscolari del potente inquilino del Nord America, il Venezuela può rappresentare davvero una seria minaccia. O per meglio dire, l’ALBA, nel suo insieme di paesi che hanno scelto una propria via alternativa al capitalismo neoliberista.
E alla inevitabile degenerazione di stampo militare-repressivo che ha caratterizzato tutto il Latinoamerica nel secolo passato. Durante il quale la uscita dal colonialismo ha prima sparigliato le carte in tavola per poi ricomporre il mazzo sotto forma di dittature militari. Che nei casi più tragici, oltre alla messianica missione di fermare l’avanzata delle sinistre, servivano da cani da guardia del grande capitale. Rivendicazioni sociali politiche e sindacali non potevano certo intralciare la realizzazione di quello sterminato mercato su scala mondiale che ancora oggi rimane l’obiettivo principale di organismi economici internazionali, amministrazioni compiacenti e le solite multinazionali.
Abbiamo visto, nel corso del Novecento, come profitti non faccia rima con diritti.
Abbiamo constatato come la economia di mercato devasti sistematicamente l’ambiente uscendone indenne e spesso con il bottino ben saldo nelle proprie mani.
Abbiamo denunciato, a volte fino allo sfinimento, lo sfruttamento l’homo homini lupus incondizionato le condizioni di vera e propria schiavitù in ogni angolo del pianeta ad opera di angeliche aziende che solo perseguivano il progresso il benessere delle persone e della nazione.
Tutto questo ha scosso e continua a scuotere le nostre coscienze, scatena la indignazione e bonifica il pensiero dalla tossicità imperante.
Ma non mette paura al cerbero della umanità fino a quando un granello di sabbia faccia inceppare il meccanismo che produce beni indispensabili all’infinito prolungamento di quel crimine socio-antropologico chiamato profitto.
Sotto il suo gonfalone si sono perpetrati i peggiori delitti che la Storia ricordi, ma che la Memoria spesso non è riuscita a conservare.
Ha scatenato le guerre più cruente e ha permesso ogni tipo di violazione del diritto internazionale senza che la ignavia di una moltitudine di governi sottomessi ne pagassero i danni.
In realtà, le nefaste conseguenze di queste reiterate politiche di aggressione sterminio e sanguinose dominazioni, valga la Palestina per tutte, sono sempre state scontate con il sangue di popolazioni innocenti.
Mai difese se non con la loro eroica resistenza sostenuta, quando possibile, da ammirevoli azioni di solidarietà internazionale.
A mettere paura, dunque, sono gli esperimenti di emancipazione dal giogo politico-economico che ha visto l’amministrazione statunitense come assoluta protagonista. Ora, tanto per ripiombare nella “cronaca”, agita lo spauracchio venezuelano in casa propria per giustificare un eventuale imminente intervento militare. Non sarebbe certo la prima volta, e probabilmente neanche l’ultima.
Il premio nobel per la pace, l’attuale presidente Barack Obama, dopo aver distribuito risorse finanziarie e supporto militare-logistico alle peggiori controrivoluzioni in giro per il mondo, si getta nella retorica più sfrenata per stigmatizzare la deriva dittatoriale in salsa sudamericana. Mette da parte il ruolo di prim’ordine nell’incanalare la protesta di Piazza Majdan a Kiev verso il più bieco dei revanscismi nazisti che si siano registrati da alcuni anni a questa parte.
Ha educato allevato e alimentato gli squadroni della morte in Ucraina così come Reagan e Bush senior con la Contra durante la decade sandinista degli anni Ottanta in Nicaragua.
Ha rimpinguato di armi le formazioni “ribelli” in Siria per poi nascondere il proprio coinvolgimento di fronte alla diretta emanazione di quella sciagurata operazione che va sotto il macabro nome di Isis.
Ha esaltato la sollevazione libica con tanto di esecuzione in diretta del Raìs garantendo ai vassalli europei, Inghilterra e Francia in testa, il saccheggio delle risorse; quelle petrolifere innanzitutto, ovviamente.
Salvo poi meravigliarsi all’idea che il Califfato spinga alle porte del mediterraneo, i cui fondali sono ancora costretti ad accogliere corpi inermi di migranti non scampati a quelle traversate talmente allucinanti da iniziare con la speranza e da finire spesso con la morte.
Corpi stritolati, in una seconda morte che è quella di un rapidissimo oblio, da una indifferenza tutta nostrana che si nasconde dietro la viltà della Unione Europea e i vecchi e nuovi cattofascioleghismi d’accatto in versione elettoralistica.
Con una mano reggono il megafono per sbraitare i loro proclami dirittofobici e razzisti, con l’altra spingono a largo, verso il naufragio, barconi improvvisati ma carichi di umanità. E ad affondare, è anche quel barlume di civiltà sopravvissuta alla barbarie di questi difficili inquinati e controversi tempi.
L’Europa, l’Europa della finanza che conta e che sceglie metodicamente le sue vittime fino a strangolarle in un impeto di compiaciuta perfidia politica, s’irrigidisce di fronte alle ripetute tragedie del mare, o si scioglie in lacrime di falsità davanti a una ennesima Lampedusa.
Con estrema disinvoltura però, arma regimi ed eserciti che si scoprirà poi, a disastro umanitario avvenuto, esserne la causa.
Tutto ciò che sfugge quindi a questa imperitura logica criminale, viene prima additato, messo alla gogna, criminalizzato e infine ufficializzato come target per la salvaguardia della sicurezza nazionale. Che altro non è che il forziere dove vengono rinchiusi i dettami ideologici secondo i quali un modello di società, con i suoi dogmi economici politici etici, è giusto, e qualsiasi altro, a volte semplicemente alternativo, altre decisamente in contrapposizione, non lo è.
Il Venezuela, oggi, così come Cuba il Nicaragua o il Burkina Faso, tanto per citare qualche esempio “a caso” del secolo scorso, non segue la religione del profitto ad ogni costo. Anzi, rincara la dose e unisce i paesi eretici in nome di una solidarietà mutua e della ridistribuzione delle ricchezze e delle risorse naturali. Non sarà, infatti non lo è, socialismo compiuto, ma l’ALBA è qualcosa di rivoluzionario. Dal punto di vista culturale ancor prima che politico.
Un completo rovesciamento della scala dei bisogni rispetto alla logica neoliberista. Reo non confesso di innumerevoli delitti in nome del libero mercato.
Quest’ultimo si appresta a sciorinare l’ennesima meraviglia in termini di trattati commerciali; sovranazionali e liberticidi: il TTIP.
Il continente europeo dunque si appresta a ratificare una sorta di latinoamericanizzazione stile “Chicago boys”, in virtù, per così dire, di un accordo con l’altro capo dell’Atlantico, che se approvato, potrebbe cambiare in peggio non solamente i rapporti strettamente economici-finanziari, ma le nostre vite in toto. Un accordo che prevede l’annullamento della legislazione dei singoli paesi a favore degli interessi delle società estere (leggasi multinazionali) che in quegli stessi paesi possano radicare le proprie attività.
Una svendita della democrazia.
Una macroscopica violazione del diritto internazionale che va di pari passo con la quasi completa disinformatja al riguardo.
La pericolosità di questo progetto è inversamente proporzionale a quanto se ne possa sapere. Le informazioni più significative sono avvolte dalla segretezza, da un laconico confidential. Ancora una volta, le decisioni che riguardano gli interessi vitali delle persone, vengono prese sulle loro teste.
La renaissance latinoamericana, fino all’avvento dell’ALBA, nasce dal rifiuto dei trattati commerciali che avrebbero voluto fare del continente americano, dal’Alaska alla Terra del Fuoco, un unico immenso mercato.
Allo stesso modo bisogna fermare il TTIP.
Per questo è necessario che il fantasma di Chávez continui ad aggirarsi per l’Europa. Più vivo che mai.
Massimo Angelilli, Coordinamento Associazione Italia Nicaragua
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