Evo Morales non potrà ripresentarsi alle elezioni del 2019.
Domenica 21 febbraio gli elettori boliviani sono stati chiamati a votare su un referendum per una modifica dell’art. 168 della Costituzione (che limita a 2 mandati la rielezione di Presidente e Vice-Presidente). La sua approvazione avrebbe permesso a Evo di ripresentarsi nel 2019. Ma così non è stato.
Con una partecipazione dell’84,45% degli elettori, l’opzione del NO ha vinto per il rotto della cuffia (51%), contro il 49% dei favorevoli alla modifica della Carta Magna.
Gongolano i corifei della restaurazione e del modello neo-liberista che parlano di “fine dell’era Evo” e del “capolinea di Morales”: in primo luogo l’opposizione boliviana, in buona compagnia dei grandi media internazionali (tra cui quelli italiani) e del Dipartimento di Stato. Ma è bene chiarire che il mandato di Evo termina nel gennaio 2020. Di sicuro, dopo i risultati avversi in Venezuela ed Argentina, la contro-offensiva imperiale nel “cortile di casa” mette a segno un altro punto a suo favore.
“Abbiamo perso una battaglia, ma non la guerra” ha detto Morales accusando la sconfitta, “continueremo con la nostra lotta”. “È la nostra prima caduta” ha continuato Morales, ricordando le tre vittorie elettorali consecutive nelle elezioni del 2006, 2009 e 2014 vinte con un ampio margine dal Movimento al Socialismo-Strumento politico per la Sovranità dei Popoli (MAS-IPSP). “Dopo 10 anni, il voto duro del MAS raggiunge quasi il 50%” ha aggiunto Evo, “nonostante la guerra sporca, discriminatoria e umiliante”. E in un Paese storicamente instabile come la Bolivia, dove i golpe organizzati dall’ambasciata statunitense erano all’ordine del giorno, non era affatto scontato mantenersi al governo ed ottenere quasi la metà dei voti dopo un decennio. Ma il “fattore stabilità” non è stato sufficiente a convincere. Nella comunicazione del governo, poco a poco la “stabilità” ha rimpiazzato “il cambiamento” e diversi analisti hanno sottolineato una campagna basata più sulla difesa delle “conquiste del passato”, che sulle prospettive di “futuro”.
In una Bolivia sempre più “urbanizzata”, Evo perde nelle grandi città, nelle regioni della ricca “media luna” capitanate da Santa Cruz, mantenendo in gran parte la base sociale rurale. A prima vista, i campesinos e le città intermedie hanno permesso di reggere l’urto. E il pragmatismo di alcune alleanze territoriali “spurie” ha permesso al “governo dei movimenti” di ampliare la sua base sociale, ma allo stesso tempo ha annacquato la sua “epica del cambiamento”.
SI e NO…
Il fronte del NO era composto da un universo variegato, dalla destra recalcitrante all’estrema sinistra che, spiazzata dal fenomeno Evo, si è alleata con la destra cercando di giustificare l’ingiustificabile.
Mentre il SI alla continuità del governo era decisamente più omogeneo, anche se distante da una fedeltà assoluta all’ ex-sindacalista cocalero, oggi Presidente. Il risultato politico è che il progetto del governo ne esce indebolito, ma la variegata opposizione sa che il MAS non è sconfitto.
Il fronte del NO ha saputo usare una tesi che rifletteva un sentimento generalizzato, soprattutto in settori urbani: “Evo ha saputo governare, ma non è positivo volersi perpetuare al potere”. Un argomento non facile da controbattere con i dati della buona gestione, che ha trovato sponda anche in settori favorevoli al governo.
Di fatto, anche nel caso boliviano, non sono bastati i positivi dati economici ed i passi avanti sul versante sociale. Il governo ha saputo guidare l’economia e, grazie alla crescita delle entrate, ha promosso l’inclusione di settori storicamente esclusi, una diminuzione significativa della povertà, l’espansione del ceto medio, il miglioramento di educazione e salute. In campo internazionale ha proiettato il Paese sullo scenario mondiale (anche con la rivendicazione marittima nei confronti del Cile) e ha scommesso sull’integrazione continentale. In negativo hanno pesato, tra gli altri, fattori come la corruzione endemica, il “muro di gomma” della burocrazia statale, un rapporto contraddittorio con il potere giudiziario ancora dominato da logiche del passato, ed una debole discussione sul “modello di sviluppo” e sul “vivir bien” per fare uscire la Bolivia dalla “dipendenza estrattiva” dalle materie prime.
La guerra mediatica e “la nuova destra”
Negli giorni precedenti alla scadenza elettorale la guerra mediatica contro il governo aveva aggiunto nuove frecce al suo arco. Da un lato l’assalto al municipio di El Alto (in mano all’opposizione) durante una protesta di “padri di famiglia”, con il risultato di 6 morti tra i funzionari municipali. Un episodio che ha fatto rivivere forme di lotta del passato in un contesto totalmente diverso e che ha proiettato un’immagine di incapacità di una dialettica “normale” tra movimenti ed istituzioni. Un evento drammatico che ha ricompattato i settori in dubbio e fatto crescere la loro distanza dai movimenti sociali, visti come corporativi, se non addirittura clientelari.
Dall’altro la denuncia da parte dell’opposizione, secondo cui Gabriela Zapata (con cui Evo aveva avuto una relazione), a capo di un’impresa cinese, avrebbe ottenuto contratti pubblici senza gara d’appalto. Il Parlamento e la Corte dei Conti stanno investigando il caso e nei giorni scorsi Zapata è stata arrestata. Pochi mesi fa, c’era stato lo scandalo del “Fondo Indigeno”, con progetti finanziati dallo Stato e mai realizzati. Una brutta pagina che ha coinvolto ex-figure di governo oggi in carcere, come la ex-Ministra dello Sviluppo Rurale, Julia Ramos. Sono episodi e che hanno permesso all’artiglieria mediatica dell’opposizione di attaccare la credibilità etica di Morales, alla base della sua legittimità politica. Per finire, la contro-offensiva continentale ed il nuovo quadro politico uscito dalle elezioni in Argentina e venezuela non aiutano il processo di trasformazione boliviano.
Sul fronte del NO, la “nuova destra” cercherà di consolidare le sue basi territoriali in varie regioni e di capitalizzare il risultato a scapito di possibili opzioni “progressiste” non di governo.
Una destra che dovrà affrontare la forte disgregazione al suo interno, la mancanza di prestigio di vecchie figure legate ai governi neo-liberisti del passato, ed affrontare la sfida del rinnovamento generazionale. Dopo averla combattuta ferocemente, oggi la destra si erge a paladina della nuova Costituzione che ha voluto rifondare il Paese e si riscopre “legalitaria”. Oltre al classismo ed alla xenofobia “contro gli indios”, il collante vincente è stata la battaglia contro “la superbia”, “gli abusi”, “la nuova élite”, o addirittura contro la “dittatura di Evo” (sic). Sullo sfondo riappare il fantasma delle due Bolivie, del passato recente. Il fantasma del protagonismo delle regioni ricche della “media luna” in mano all’opposizione, che aveva tentato la carta della secessione con sanguinose rivolte che sembravano assopite e che oggi riprende fiato.
Le nuove sfide
Il nuovo scenario pone sfide inedite ai protagonisti del processo di trasformazione dello Stato Plurinazionale della Bolivia. Innanzitutto sul versante del governo, del gruppo parlamentare, del MAS e della Coordinadora Nacional por el Cambio (Conalcam) e dei movimenti sociali che appoggiano il processo di trasformazione si apre una importante riflessione, già annunciata da Evo che ha parlato della necessità di ristrutturare il MAS, movimento-partito di governo.
In secondo luogo, Morales non potrà ricandidarsi ed il MAS dovrà trovare nuovi dirigenti e nuove figure di consenso, anche per smarcarsi dall’identificazione del progetto politico con una persona, per quanto carismatica. E se, secondo Morales, non è ancora il momento di parlare di un “successore”, il risultato accelera la necessità di nuove figure. Un processo da tempo postergato, che secondo Evo dovrà esser condotto dai “movimenti sociali, che dovranno cercare un candidato o una candidata di consenso”. Ma i movimenti politici e sociali non sono una costruzione teorica, né un capriccio della storia. Quelli veri sono il prodotto di una dinamica sociale dal basso, spesso in conflitto con il potere, che può far nascere nuovi dirigenti popolari. Un contesto che ripropone il nodo e la tensione dialettica della “autonomia dei movimenti” dal “governo amico”, ancora non risolto. Ed allo stesso tempo, non è scontato riuscire a fare emergere dirigenti reali dall’alto, ancor di più in presenza di un protagonista indiscusso di profonde trasformazioni sociali. Insomma, è facile affermare che “bisogna” costruire un leader collettivo, con un ricambio e nuovi dirigenti politico-sociali. Ma farlo è molto più complesso, anche in presenza di una volontà politica, come la storia (inclusa la nostra) ci insegna.
In terzo luogo, il fronte della comunicazione continua ad essere un tallone d’Achille dei processi di cambiamento in America Latina. Oltre ai tradizionali mezzi di comunicazione in mano ai soliti potentati economici, la “guerra sporca” è stata condotta anche con l’uso massiccio e spregiudicato delle cosiddette “reti sociali”. Un “fronte” relativamente nuovo per i settori che appoggiano il processo, ma non per la destra internazionale che ne fa uso da tempo in vari Paesi. La battaglia per l’egemonia (in senso gramsciano) dei cuori e delle coscienze è un tema prioritario per le forze del cambiamento.
Ma affermare che i responsabili della sconfitta siano solo l’imperialismo, la “nuova destra” boliviana e le “reti sociali” sarebbe nascondersi dietro un dito. È evidente che il MAS e gli stessi movimenti sociali dovranno riflettere autocriticamente sugli errori commessi in questi anni, per non ripeterli.
Un terreno ineludibile, da cui dipende in gran parte la possibilità di avanzare.
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