Intervista a Fabrizio Lorusso, tra i maggiori esperti italiani di politica messicana, e delle dinamiche criminali che sconvolgono la Nazione nordamericana.
di Francesco Giappichini 14 febbraio 2016
In queste ore, segnate dalla visita di papa Francesco in Messico, è d’obbligo porci qualche domanda sulla Nazione ispanoamericana. Che se da un lato vanta il quattordicesimo posto tra le maggiori potenze mondiali, dall’altro è sconvolta da un’ondata di violenza, che rischia di sancirne l’assoluta inaffidabilità. Negli ultimi mesi – e nonostante l’Area sia tradizionalmente negletta dal mainstream internazionale – il Paese è riuscito a far parlare di sé anche sui quotidiani nostrani. La strage degli studenti a Iguala e la telenovela della cattura di Joaquín “El Chapo” Guzmán Loera – con Sean Penn attore non protagonista – hanno contribuito a che i media occidentali degnassero di una certa attenzione l’omicidio del sindaco di Temixco, Gisela Mota Ocampo, la sanguinosa rivolta nel carcere Topo chico di Monterrey, e anche il sacrificio dell’ennesimo giornalista: Anabel Flores Salazar è stata uccisa proprio lo scorso 9 febbraio, nello Stato di Veracruz.
E per chiarire i nostri interrogativi, abbiamo chiesto aiuto a Fabrizio Lorusso (@FabrizioLorusso ), tra i maggiori esperti italiani di politica ed economia messicane. Il 38enne bocconiano – originario della Bovisa, in quel di Milano – vive da circa quattordici anni a Città del Messico; qui non soltanto insegna Storia dell’America latina e geopolitica latinoamericana presso l’Universidad nacional autónoma de México (Unam), e l’Universidad iberoamericana (Uia), ma scrive anche saggi (che ci piace definire cult) ed è corrispondente per l’edizione italiana dell’«Huffington post»; oltre a gestire un interessante blog sull’attualità messicana, dal titolo “L’America latina” ( http://lamericalatina.net/ ).
Il nostro intervistato, come accennato, ha pubblicato dei libri ove ha approfondito – e in un Paese come il Messico, forse non era possibile fare altrimenti – le dinamiche criminali locali, e le collusioni tra cartelli e politica. Riuscendo a sdoganare nella pubblicistica italiana – e per questo soprattutto, è ricordato – il termine narcoguerra. Delle sue pubblicazioni tuttavia parleremo nell’introduzione alla seconda parte della nostra intervista, che sarà online tra qualche giorno.
Sui media italiani si parla spesso del Messico come di un Paese in mano ai narco, e i recenti fatti di cronaca – i desaparecidos di Iguala, l’arresto di Joaquín “El Chapo” Guzmán Loera, l’assassinio di Gisela Mota Ocampo – rendono forse inevitabile l’approccio. Quali, le origini della deriva? Perché la società non sa mettere in campo quegli anticorpi, che ad esempio hanno impedito al Brasile di sprofondare nell’abisso?
«Le origini della deriva sono antiche, risalgono per lo meno agli Anni settanta; se non a prima, cioè quando la coltivazione, elaborazione e traffico di stupefacenti – in primis marijuana e oppiacei, poi cocaina dalla Colombia – diventano business veri e propri. La domanda statunitense sperimenta un boom. In Messico nascono organizzazioni regionali e poi internazionali, come quelle di Guadalajara e del Golfo. Già dagli inizi si tratta di traffici condivisi e pattuiti, tra settori della politica e i narcotrafficanti. La società messicana ha reagito a più riprese, alle condizioni di repressione sociale e di disuguaglianza economica in cui versa. Solo come esempio, pensiamo agli zapatisti dell’Ejército zapatista de liberación nacional. Contro l’ondata di violenza e disgregazione – causata dal modello economico e dall’offensiva militare contro i cartelli, la narcoguerra, dopo il 2006 – ci sono state tante manifestazioni e opposizioni. Alcune hanno dato visibilità alle vittime. Penso al Movimento per la pace con giustizia e dignità, del poeta Javier Sicilia».
Immagino che però la strage di Iguala, del settembre 2014, abbia cambiato qualcosa, nella società civile messicana. Di certo qualcosa è cambiato, almeno presso l’opinione pubblica internazionale …
«Oggi i genitori dei quarantatré desaparecidos di Ayotzinapa conducono una lotta ammirevole. Per ora però nessuno ha mostrato continuità per più di qualche anno, né ha raggiunto una massa critica per un vero cambiamento. Sono osteggiati dalle istituzioni e dai mass media asserviti, quindi lo sfiancamento è costante. Anche per questo, cercano sostegno internazionale».
Di là dai dati statistici, giudica il Messico pericoloso per chi fa informazione?
«Direi di sì. Qualche statistica però serve: tra i cento e i 120 giornalisti sono stati uccisi nell’ultimo decennio. Basta seguire il lavoro di un’organizzazione non governativa come Article19, per capire quanti altri attacchi – non sempre letteralmente mortali per i giornalisti, ma sì fatali per la libertà di stampa e la democrazia – sono scagliati quotidianamente contro chi comunica e critica. Che sia un blogger o un reporter, un editore di un quotidiano o un fotografo di una rivista, poco importa. Si vive tra due fuochi: il crimine organizzato e le Autorità. Entrambi fanno la loro parte, nel peggiorare la situazione. Caso indicativo, ma è solo un esempio, l’assassinio di Regina Martínez, corrispondente di “Proceso” da Veracruz. Questa zona, insieme allo Stato di Tamaulipas, è in pratica off limits. E non è tutto. Prima la Capitale era reputata un luogo sicuro, anche se non era completamente così. Tuttavia dopo la morte del reporter Rubén Espinosa Becerril e dell’attivista Nadia Vera – trucidati insieme con altre tre persone in un appartamento di un quartiere benestante a Città del Messico, il 31 luglio scorso – nemmeno è possibile parlare di una zona di sicurezza per la stampa. Il caso è ancora irrisolto e la Procura tergiversa, non investiga i possibili moventi politici».
Come si vive l’attesa per la visita del papa?
«I Comuni e i luoghi della visita stanno vivendo un processo d’intenso trucco. Intorno però tutto rimane uguale: Ciudad Juárez, Ecatepec, lo Stato del Messico, cioè la regione intorno alla Capitale, e la Capitale stessa. Son tante le organizzazioni sociali – specialmente quelle che danno visibilità alle vittime della criminalità organizzata e ai desaparecidos – che non potranno accedere a un contatto con il papa, o mostrare pubblicamente le loro esigenze. Il Governo vuole approfittare della visita del pontefice per costruire in fretta una nuova vetrina di fronte al mondo, mentre la gran massa di vittime della narcoguerra e della decomposizione sociale saranno nascoste. Lo Stato difficilmente si assumerà le proprie responsabilità dinanzi a Francesco».
Intanto un nuovo scandalo, di origine religiosa o meglio liturgica, pare collocare nuove nubi sulla politica messicana; in particolare, sul matrimonio del 2010 tra il capo dello stato e Gaviota, la celebre attrice di novela, in forza al colosso radiotelevisivo Televisa.
«Vanno seguiti adesso gli scandali, proprio freschi, sul primo matrimonio di Angélica “Gaviota” Rivera, cioè la moglie del presidente Enrique Peña Nieto. Pare che l’annullamento del suo primo matrimonio non sussista, ma lei s’è sposata comunque col presidente; mentre il prete del primo matrimonio è stato severamente e ingiustamente penalizzato, prima di morire».
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