È una dura sconfitta quella subita dal processo bolivariano in Venezuela nelle elezioni parlamentari di domenica 6 dicembre. Con circa il 18% di differenza, l’opposizione conquista la maggioranza del parlamento che ha rinnovato i suoi 167 deputati. Un parlamento che, grazie alla recente legge elettorale, sarà composto al 40% da donne. Con circa il 25% di astensione, al momento in cui scriviamo i risultati (ancora parziali) assegnano ben 99 seggi all’opposizione e solo 46 alle forze socialiste, nella quarta legislatura dall’avvento dello scomparso Hugo Chávez. Mancano ancora 22 seggi da assegnare e sono quelli che faranno la differenza, dato che con la maggioranza dei 2/3 l’opposizione avrebbe poteri molto più incisivi. L’opposizione celebra nelle strade di Caracas – Foto Carlos Becerra (Bloomberg) È l’elezione numero 20 nei 17 anni del processo bolivariano, iniziato proprio un 6 dicembre del 1998, con la prima vittoria di Hugo Chávez, che mise in moto il processo della Rivoluzione bolivariana. Fino a ieri, l’unica sconfitta delle forze socialiste era stata quella sulla riforma costituzionale del 2007, quando l’opposizione alla riforma ottenne una “vittoria pirrica” con il 50,7%. Ancora una volta, la “dittatura chavista” ha dato esempio di trasparenza ed onestà. Un esempio per molti Paesi del mondo, a partire dagli stessi Stati Uniti. Nonostante gli strepiti della destra, le elezioni si sono svolte in maniera esemplare, come tutte le precedenti.
Ed anche chi scrive ha avuto modo di verificarlo con i propri occhi in 6 occasioni in cui ha partecipato come “accompagnante internazionale” alle scadenze elettorali, invitato dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE). Non ci sono stati incidenti, a parte l’episodio increscioso di tre ex-presidenti latino-americani della destra oltranzista, che due ore prima della chiusura dei seggi, annunciavano la vittoria dell’opposizione. “Siamo qui con la nostra morale e con la nostra etica, per riconoscere i risultati avversi, per accettarli e dire che ha vinto la democrazia”, ha detto a caldo il Presidente Nicolás Maduro che ha da subito ammesso la sconfitta. “Abbiamo sempre saputo di nuotare contro-corrente, di dover superare le difficoltà e non ci siamo mai nascosti”. Di certo, da oggi si apre una inedita e conflittiva coabitazione tra un governo che vuole approfondire il cambiamento e un’opposizione che punta alla restaurazione conservatrice. C’è da sottolineare che il cambio della maggioranza parlamentare, non implica automaticamente la caduta del governo bolivariano. Infatti, per scalzare il Presidente Maduro (in carica fino al 2019), grazie alla Costituzione voluta da Chávez, l’opposizione può cercare di raccogliere le firme necessarie per indire un referendum revocatorio, a partire dalla metà del mandato presidenziale. Ma deve vincerlo. Il che non è affatto detto, considerando che, nonostante tutto, più del 40% degli elettori ha confermato il suo appoggio al “socialismo bolivariano”. L’offensiva imperiale Nelle parole di Maduro, “ha vinto la contro-rivoluzione e la guerra economica”, che ha messo in ginocchio il Paese. “Ha vinto una strategia per minare la fiducia collettiva in un progetto di Paese, ha vinto temporaneamente lo stato di necessità creato da una politica di capitalismo selvaggio, di nascondere i prodotti, di aumentarne i prezzi”. Nel suo discorso dal palazzo presidenziale di Miraflores, Maduro ha ricordato le vicende passate del Brasile di João Goulart, del Guatemala di Jacobo Arbenz e del Cile di Salvador Allende, che più si assomigliano alla realtà del Venezuela di oggi. Maduro ha parlato di una sconfitta “por ahora”, riecheggiando le parole del Comandante Chávez quando, fallita l’insurrezione civico-militare, si preparava al carcere. In questi 17 anni siamo stati testimoni della brutale contro-offensiva imperialista nei confronti del processo bolivariano che non si è mai fermata, ma che al contrario è aumentata di intensità. L’enorme spiegamento di forze della reazione, interna ed internazionale, impegnata in un’offensiva a tutto campo, non ha risparmiato nessun mezzo per sconfiggere il processo e seminare la sfiducia della popolazione nella capacità del governo di risolvere i problemi: un tentativo di golpe fallito grazie alla mobilitazione popolare, attentati e sabotaggi, violenze di strada e criminalità, omicidi selettivi di dirigenti popolari, infiltrazione dei paramilitari colombiani sia nelle zone di frontiera che nelle città, contrabbando e mercato nero, accaparramento dei beni di prima necessità con la conseguente penuria provocata, assedio mediatico internazionale, caduta del prezzo internazionale del petrolio su cui si basa il bilancio venezuelano, attacchi del sistema finanziario internazionale, pressioni diplomatiche, ingerenza sfacciata. Dulcis in fundo la dichiarazione del marzo scorso del governo statunitense del “democratico” Obama sul Venezuela come una “inusuale e straordinaria minaccia per la sicurezza nazionale e la politica estera degli USA”. Una vera e propria dichiarazione di guerra che si aggiungeva ai finanziamenti milionari “made in USA”, profusi generosamente all’opposizione. A questo c’è da aggiungere gli errori nella gestione economica del governo, nella designazione di alcuni dirigenti, l’insicurezza per la scarsa efficacia della lotta alla criminalità organizzata, ed il problema della corruzione anche tra le proprie fila, mai affrontato fino in fondo. Un fattore importante nella perdita di consenso e nel “voto castigo”. C’è poi un altro fattore, poco considerato. La popolazione era “stanca della guerra” e delle condizioni di vita conseguenti. A chi scrive, le elezioni di ieri ricordano il voto del 1990 contro i sandinisti, dopo anni di attacchi della “contras”, di aggressioni e di embargo statunitense al Nicaragua. Nel voto c’è anche la speranza mal riposta che questo “logorio” abbia fine. Gli alleati dell’Impero Il bue dice cornuto all’asino. Ed è così che in questi anni le mummie fasciste, e i sepolcri imbiancati di tutto il continente si sono stracciati le vesti contro la “dittatura chavista” e a “difesa della democrazia ferita”. Sono gli stessi protagonisti o complici dei sanguinosi colpi di Stato degli anni passati. Tra gli altri, i deputati cileni del partito di Pinochet, la UDI, che hanno chiesto a gran voce il rispetto della volontà popolare. In buona compagnia dell’ex-presidente narco-trafficante colombiano Álvaro Uribe (secondo la DEA statunitense), il boliviano Jorge Quiroga, ex-vicepresidente del dittatore Hugo Banzer, protagonista del “Plan Condor”, l’operazione che ha assassinato e torturato i militanti della sinistra di tutto il continente, sotto la direzione della CIA. La novità è che alle file reazionarie (e in alcuni casi direttamente golpiste), si sono aggiunti settori della “social-democrazia”, in una campagna internazionale degna di miglior causa. La lista è lunga: socialisti cileni, argentini e spagnoli, il brasiliano Cardoso, ampli settori dei socialisti europei tra cui il PD italiano, da sempre alleato di Acciòn Democratica, membro dell’Internazionale Socialista. L’ultima in ordine di tempo è stata la vergognosa presa di posizione dell’attuale Segretario dell’ Organizzazione degli Stati Americani (OEA), l’uruguayano Luis Almagro, ex-ministro degli esteri del governo del Frente Amplio. Stizzito dal mancato invito alla OEA come osservatore elettorale, il cosiddetto frente-amplista Almagro, è passato armi e bagagli con la destra venezuelana, ed aveva addirittura chiesto di sospendere le elezioni per “mancanza di garanzie” per l’opposizione. La posta in gioco in Venezuela L’interesse per ciò che succede in Venezuela è dimostrato dai circa 12.000 giornalisti presenti per la scadenza elettorale, con ben 420 testate straniere. Un interesse internazionale che non c’è stato per le elezioni in Francia, dove per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, ha vinto l’estrema destra ipotecando il futuro della stessa Europa. Il futuro del Venezuela ha a che vedere con l’America Latina, ma non solo. In questi anni il popolo venezuelano ha saputo resistere ed avanzare nella costruzione di una patria sovrana, una società più giusta ed egualitaria, basata su una vera democrazia “partecipativa e protagonica”, verso il socialismo del XXI° secolo. Guidato dallo scomparso Hugo Chàvez, il Venezuela bolivariano è stato un esempio internazionale, inaugurando proprio il 6 dicembre di 17 anni fa, un’inedita epoca di trasformazioni in America Latina e nei Caraibi. Qual’è la posta in gioco in Venezuela ? Innanzitutto un progetto nazionale che si richiama apertamente al socialismo, una bestemmia per i sacerdoti del “libero mercato” capitalista. In secondo luogo, un processo di integrazione regionale autonoma dagli Stati Uniti nel loro “cortile di casa”, iniziato con Chávez nel continente più ricco, ma ancora più diseguale del pianeta. In terzo luogo, i rapporti della regione con il mondo. Oggi il continente ha un peso internazionale proprio grazie al fatto che, per la prima volta, ha dato vita a nuove instanze regionali come UNASUR, la CELAC, l’ALBA. Sin dall’inizio è stato chiaro per entrambi gli schieramenti in campo che, più che di un’elezione parlamentare, si trattava quindi di modificare l’architettura politica dell’intera regione e dei rapporti internazionali, sull’onda dei risultati in Argentina con la vittoria della destra di Macri. Sarà vero che, come sostiene la destra (ed anche settori della sinistra), nel continente siamo alla fine di un ciclo del “modello progressista” ? La Mesa de Unidad Democratica Nonostante l’appoggio dell’impero, la Mesa de Unidad Democrática (MUD) non avrà vita facile. E’ una forza eterogenea, composta da più di 18 organizzazioni molto diverse tra loro, il cui collante fino ad ora è stato la battaglia contro Chávez prima e il “chavismo” di Maduro poi. Oggi la responsabilità di una forte maggioranza parlamentare (e quindi legislativa) la obbliga a proposte concrete per risolvere problemi che affliggono la popolazione, non facili per una forza che fino ad oggi si è limitata alla denuncia sguaiata e ad invocare l’intervento di forze straniere. Travestito da agnello, nelle prime dichiarazioni il portavoce della MUD ha fatto appello “al dialogo e alla pace”. Ha detto di non voler eliminare le conquiste sociali, ma il programma elettorale rappresenta una marcia indietro sostanziale nei diritti conquistati in questi anni. Al di là dei travestimenti ad hoc, l’agenda della restaurazione neo-liberale è chiara. Innanzitutto è esplicita la volontà di eliminare il controllo statale nella prestazione dei servizi pubblici, attualmente sussidiati, che dovrebbero essere sostituiti con l’associazione strategica pubblico-privato sotto forma di concessioni. In altre parole la privatizzazione dei servizi pubblici. Sulla casa (punto chiave del processo bolivariano che ha costruito e consegnato quasi un milione di nuove abitazioni) la MUD propone un piano abitativo incompleto che apre spazio all’indebitamento con le banche per terminare la costruzione delle case. Sul versante delle pensioni riprende in maniera opportunista una proposta governativa già realizzata di collegarle al salario minimo e di includere i settori che non sono riusciti a versare i contributi minimi sufficienti (autisti, contadini, casalinghe, pescatori) Per quanto riguarda i rapporti di lavoro, l’intenzione è quella di eliminare la riduzione dell’orario di lavoro, e ridurre le ferie oggi contemplate per legge. Si parla di rivedere gli investimenti sociali dell’attuale governo “che favoriscono l’inflazione”. C’è da sottolineare che, nonostante la caduta del prezzo del petrolio nei mercati internazionali, il governo bolivariano ha destinato il 60 % del PIL alle politiche pubbliche nel settore della salute, dell’educazione, dell’alimentazione, della stabilità dell’occupazione. Per finire, la MUD propone la promulgazione di una “Legge di amnistia e riconciliazione” per liberare i delinquenti condannati per il loro coinvolgimento in diversi crimini gravi. Un caso per tutti quello di Leopoldo López, dirigente dell’opposizione, condannato a 13 anni per le sue responsabilità nelle recenti violente proteste con fini golpisti che hanno provocato la morte di 43 persone. Le forze socialiste Nelle file del Gran Polo Patriotico, l’alleanza politico-elettorale delle forze socialiste, si è appena aperta la riflessione sulla dura sconfitta. Non c’è dubbio che il “chavismo” dovrà riflettere a fondo in maniera auto-critica, e soprattutto correggere gli errori fin qui commessi. Una riflessione che non riguarda solo il Venezuela, e che la sinistra nel mondo dovrà seguire con attenzione ed il massimo rispetto. Nelle file bolivariane, oltre alla rabbia e alla tristezza, è chiara la volontà di continuare la battaglia per la costruzione di una società del “socialismo del XXI° secolo”. Concretamente dal 1998 si tratta di una società in cui la stragrande maggioranza della popolazione ha avuto accesso a una dieta riconosciuta dalla stessa FAO come uno sforzo concreto del governo bolivariano nel campo della sicurezza alimentare. Se prima del 1998 gli alfabetizzati erano 5000, oggi la media annuale è di 137 mila persone. Dal 1998 la quantità di docenti è aumentata del 468%. Dagli asili all’università, l’educazione è gratuita ed oggi studiano 10 milioni di Venezuelani. La Unesco ha riconosciuto che il Paese è al terzo posto nella regione in quanto a lettori. Ma anche in questo caso non è bastato a vincere. Non rimarranno con le braccia incrociate, nè staranno a guardare impotenti, le circa 3000 “comunas socialistas”, embrioni di contro-potere territoriale costruiti in questi anni su impulso del Comandante Chávez. Non staranno a guardare le donne, i lavoratori, nè gli “invisibili” della “quarta repubblica” che hanno ritrovato la loro dignità grazie al processo di profonda trasformazione in senso socialista. Il braccio di ferro della lotta di classe da oggi vive una nuova fase storica. Come sosteneva il libertador Simón Bolívar, “l’arte di vincere si impara dalle sconfitte –
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